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La linea retta che segnava la fine della foresta e l’inizio della prateria sembrava un confine magico che divideva in modo netto due mondi distanti. Il sole era ancora alto nel cielo e una leggera brezza autunnale accarezzava le fronde degli alberi. Il cinguettio degli uccelli riempiva tutto il silenzio di quel luogo.
Non molto distante, un piccolo sentiero di terra battuta attraversava la prateria, collegando la vicina città X ad altri paesi più lontani.
Non era una strada molto trafficata. Vi passavano perlopiù ragazzini che venivano a giocare nel verde, oppure persone che, desiderose di una boccata d’aria fresca, la percorrevano per un pezzo, incantate dalla vista di quei grandi alberi che spontaneamente si erano allineati in una fila ordinata e armoniosa che si estendeva fino all’orizzonte, come dipinta in un quadro.
Se qualcuno fosse passato là in quel momento, avrebbe assistito a qualcosa assai singolare: un cespuglio, ai piedi di una vecchia quercia che si trovava lungo quella linea, fu preso da un tremolio frenetico, che non cessò nemmeno in quei momenti in cui il vento si calmava e tutto il verde circostante smetteva di agitarsi. Dal suo folto vi uscirono un paio di braccia, seguite poi da un busto e due gambe.
Era un cavaliere, vestito d’armatura e col volto nascosto sotto un elmo.
Ciò che di lui poteva attirare di più l’attenzione non era l’armatura che indossava, non essendovi battaglie vicine che ne spiegassero l’impiego, ma uno scialle di un intenso colore giallo che portava avvolto attorno al collo.
Tolse alcune foglie che gli si erano impigliate addosso e s’incamminò attraverso il prato, in direzione del sentiero.
“Hey, capo! Hai idea di dove ci troviamo?” chiese una vocina proveniente da una delle tasche del Cavaliere.
“No. Tu lo sai?”
“No, però qui l’aria è più fredda che sull’isola. Non mi piace questo posto!”
“Rintanati allora nella tua tasca e dormi un po’, per ora posso fare a meno di te,” rispose il Cavaliere mentre raggiungeva il sentiero e lo imboccava in direzione della città.
Il sentiero, che zigzagava in mezzo all’erba in direzione del centro abitato, divenne presto un selciato costeggiato da alte case di legno, dalle cui finestre uscivano indistinte le voci delle persone che vi abitavano.
Quello doveva essere il sobborgo della città. Ai lati della strada vi erano mendicanti senza dimora, o persone dall’aria poco raccomandabile che, appoggiate sulle mura delle case, guardavano con sguardo attento i passanti, in attesa di qualcosa o qualcuno.
Nessuno sembrava comunque prestare attenzione al nuovo arrivato in armatura, che proseguendo dritto lungo la via, giunse in breve tempo davanti a un’arcata che dava accesso a una grande piazza. Dopo averla attraversata, vi si addentrò un po’ prima di fermarsi a guardarla meglio.
Alti palazzi di pietra ne delimitavano il perimetro ovale. Erano molto vecchi e rovinati, indubbiamente lontani dalla sontuosità di cui un tempo dovevano aver vantato. Innumerevoli assi di legno erano stati infissi sulle loro facciate nel tentativo di coprirne le crepe, e verdi rampicanti, in parte rinsecchiti, vi si erano sistemati sopra. Nelle crepe scoperte, che fossero ancora all’aria poiché giovani o difficilmente raggiungibili, avevano nidificato gli uccelli.
Alzando lo sguardo, il Cavaliere osservò il cielo ovale splendente d’azzurro, frastagliato da numerose cornacchie che volavano tra crepe e tetti alla ricerca di cibo, gracchiando sonoramente.
La piazza ospitava un mercato molto affollato, composto da dozzine di bancarelle il cui legno marcio e scheggiato contrastava con le preziose tende dai colori sgargianti che le ornavano. Da sotto di queste, i commercianti richiamavano a gran voce l’attenzione dei passanti sulle loro straordinarie occasioni.
Il Cavaliere si voltò verso un venditore poco lontano da lui, un signore dalla carnagione olivastra e con folti baffi neri, che indossava un lungo abito porpora dai motivi dorati. Parlava a una signora che stava guardando il suo banco di frutta con uno sguardo assente.
“Buonasera Signora Evans! Cosa posso fare per lei oggi?”
La signora sbatté ripetutamente le palpebre, come destata da un sogno ad occhi aperti. Confusa guardò prima il venditore, poi il cesto che teneva tra le mani, e poi ancora il venditore.
“Volevo dei pomodori.”
“Certo signora, quanti ne vuole?” chiese prontamente il venditore, aspettando composto per qualche lungo secondo che la signora riordinasse le proprie idee e dicesse: “Un po’.”
Le prese gentilmente il cesto dalle mani e iniziò a riempirlo velocemente con tanti, forse troppi, pomodori.
“Non ne sta mettendo un po’ troppi? Si sta approfittando di quella povera signora?” giunse bisbigliando all’orecchio del Cavaliere la vocina dalla sua tasca, ma nel tempo che impiegò per finire di dirlo il venditore aveva già restituito alla signora la sua cesta, piena fino all’orlo.
“Quanto le devo?” chiese la signora Evans, prendendo il borsello.
“Offre la casa! La prego di tornare subito alla sua abitazione e di cucinarci qualcosa di buono. Arrivederci!”
La signora abbozzò un sorriso e se ne andò, lenta e distratta, senza salutare.
Il Cavaliere la seguì con lo sguardo mentre si allontanava facendosi maldestramente largo tra la folla.
“Voglio una pera” sbottò poco dopo la vocina.
“Serviti pure” le disse il Cavaliere, facendo un cenno verso la bancarella.
“Ma ti pare? Vuoi che esca di tasca con questo freddo? Vacci tu e comprala per me.”
“Con quali soldi?”
“I tuoi!”
“Pensi davvero che abbia dei soldi con me?”
“Zitto e ascolta: hai visto quel signore, come ha regalato un quintale di pomodori alla signora? Va da lui e fatti regalare una pera!”
Il Cavaliere fece un sospiro, e raggiunse la bancarella in pochi passi.
“Buongiorno messere, in cosa posso servirla?” lo accolse prontamente il venditore.
“Mi chiedevo se avesse una pera da regalarmi.”
Le sopracciglia del venditore si inarcarono per la sorpresa, prima di aggrottarsi in un cipiglio severo: “Qui non facciamo beneficienza. Le mie pere, così come tutto quello che vede nel mio banco, vengono raccolte con fatica dai miei ragazzi, e per tale fatica meritano una remunerazione.”
“Ha ragione, è solo che l’ho vista poco fa regalare a una signora un’intera cesta di ortaggi, e non avendo soldi con me speravo potesse donarmi una pera soltanto.”
“Capisco, ma la risposta è no, mi dispiace” rispose il venditore. Dopo un attimo però le rughe sotto ai suoi occhi si distesero, e riprese a dirgli, abbassando la voce: “Non abbiate a male ciò che le ho detto. La signora che avete visto è la madre di un mio caro amico scomparso pochi giorni fa dalla sua abitazione, ed è questo, e questo soltanto, il motivo per cui mi sono permesso di omaggiarla dei miei prodotti gratuitamente.”
“Capisco,” rispose il Cavaliere, senza trasporto. Dopo una breve pausa disse, a mo’ di congedo: “Mi dispiace per il suo amico, spero venga presto ritrovato.”
“Mmm… Lei non è di queste parti, vero?” lo riprese il venditore.
“Da cosa l’ha capito? Dal fatto che non tenga con me nemmeno i soldi per comprarmi una pera?”
“No… O forse sì, anche quello. L’ho capito dal fatto che non ha colto davvero il senso di ciò che le ho detto.”
“Cos’avrei dovuto cogliere?”
“Nella nostra città, chi scompare non ha alcuna possibilità di essere rintracciato. Nella nostra città ‘scompare’ chi è stato catturato e condotto al Castello.”
“Quale castello?”
“Non le sarà difficile notarlo, sta a nord, in cima alla rupe che veglia sull’intera area.”
Il Cavaliere guardò in alto incuriosito, verso nord, ma la vista era completamente ostacolata dagli alti palazzi della piazza. Voltandosi di nuovo verso il venditore, chiese: “Perché dite che una persona scompare quando viene portata là?”
“Perché non è mai successo che delle persone portate al Castello si siano poi avute più notizie.”
“Cos’aveva fatto il suo amico per meritare l’arresto, se posso chiedere?”
“Niente, era un bravo ragazzo e un onesto cittadino… I criteri che il Castello usa per giudicare i cittadini sono forse ancora più ignoti del fato dei suoi prigionieri.”
“DOV’È LA MIA PERA?” eruttò la vocina dalla tasca del Cavaliere con grande furia, furia smorzata dalla sua estrema acutezza, che rendeva la scena più comica che minacciosa.
“M-ma…” esclamò a bocca aperta il venditore, abbassando gli occhi sulla tasca del Cavaliere.
“Fermate quel ladro!” esordì in quello stesso momento un’altra voce in lontananza, che fece voltare tutti i presenti.
Un ragazzino, inseguito da delle guardie armate, stava sfrecciando a tutta velocità nella loro direzione travolgendo i passanti con violenza.
“Peter! Ha rubato ancora una volta?” disse preoccupato il venditore, guardando il giovane avvicinarsi sempre di più.
Il Cavaliere si allontanò d’un passo dalla bancarella e prese al volo un lembo della maglia del giovane, quand’egli giunse sfrecciando accanto a loro. Lo strattone fu notevole, perché il ragazzo quasi cadde ai suoi piedi.
“Lasciami andare!” urlò.
“No” rispose con tranquillità il Cavaliere.
“Ma cosa fa? In questo modo lo prenderanno!” disse allarmato il venditore.
“E non è un bene?” chiese stupito il Cavaliere.
“No! Peter rischia molto nel farsi catturare, da troppo tempo si comporta da sprovveduto senza curarsi delle conseguenze. Lo lasci andare!”
“Noi lo aiutiamo a scappare e lei mi dà una pera, affare fatto?” lo interruppe la vocina.
Il venditore abbassò di nuovo lo sguardo sulla tasca, senza parole.
“Lo prendo come un sì. Andiamo, capo! Guadagnati la mia pera!” continuò.
Il Cavaliere rimase fermo com’era, senza dir niente.
“Capo, mi hai sentito? Andiamo!” esordì con maggiore energia la vocina.
Egli si rianimò improvvisamente, e mentre lasciava andare il giovane, che riprese subito a correre, guardò quanti metri ancora li distanziavano dalle guardie prima di lanciarsi al suo seguito.
Stavolta la fuga del giovane era sgombra dai passanti, con l’interruzione del Cavaliere c’era stato tempo a sufficienza affinché potesse crearsi un passaggio. Avevano quasi raggiunto l’uscita della piazza quando comparvero davanti a loro due guardie che, senza sfoderare le loro armi, si preparavano a bloccarli. Peter con un guizzo repentino riuscì a passare a tutta velocità in mezzo a loro, evitando le loro prese. Il Cavaliere subito dietro, conscio che con la sua stazza non sarebbe stato altrettanto fortunato, si strinse nelle braccia e assestò loro due forti spallate, facendoli finire a terra. Una volta giunti fuori dalla piazza, imboccarono la prima traversa che si apriva loro da un lato. Era un vicolo buio, stretto e sporco. Una di quelle vie che danno sui retro delle botteghe, usate come discarica di qualsiasi oggetto che fosse rotto, troppo usurato o semplicemente inutilizzabile.
La percorsero a lungo e a gran velocità, facendo attenzione a non inciampare nelle numerose casse vuote o rotte, a non calpestare cumuli di rifiuti e a strisciare sotto le varie travi che intralciavano il passaggio.
Solo quando si sentirono sicuri d’aver seminato gli inseguitori, si fermarono in un piccolo slargo, sgombro di rifiuti, che fungeva da svincolo tra quattro viuzze che strettamente si diramavano nel folto delle case.
Peter si piegò in avanti, sudato e affannato, appoggiando le mani sulle ginocchia.
Il Cavaliere, vicino a lui, gli disse: “Il signore al mercato ha detto che rischi grosso a continuare a farti beccare a rubare qualcosa.”
“Perché t’interessa?” chiese Peter, guardandolo truce mentre si asciugava il sudore sulla fronte.
“Ci sono persone che ti hanno a cuore, non è da irresponsabili comportarsi come ti sei comportato?”
“Che ne sai tu!” gli rispose Peter arrabbiato, “Ho preso una pietra per affilare, per rimettere a posto il mio coltello”, disse mostrandogli un pugnale che teneva nascosto nella tasca. La sua lama era molto smussata e sarebbe andata al più bene, forse, per tagliare la pera che il Cavaliere si era appena guadagnato.
Stringendo ancora la lama in mano, squadrò per un po’ la figura del Cavaliere. “Se però dici che è importante rubare senza essere scoperti, qui non ci sono testimoni” proseguì avvicinandosi a lui di qualche passo.
“Non ho monete con me” rispose il Cavaliere.
“Neanche una? Impossibile!” esclamò Peter lanciandoglisi addosso. Il Cavaliere deviò la sua pugnalata senza troppa difficoltà.
“Non è un bel modo di ringraziare” osservò.
“Non ricordo d’aver chiesto il tuo aiuto!” sbraitò il ragazzino, fendendo l’aria con numerose altre coltellate. Il Cavaliere si spostò velocemente di lato facendo lo sgambetto al giovane, che nel tentativo d’assestare un colpo perse l’equilibrio e finì a terra.
“Maledizione!” sbraitò, rialzandosi e guardando un’ultima volta il Cavaliere prima di voltarsi e darsela a gambe. Il Cavaliere, da dietro l’elmo, lo guardava senza mostrare alcun desiderio d’inseguirlo.
Il ragazzino aveva appena svoltato l’angolo quando una mano nascosta nell’ombra lo agguantò per un lembo della maglia, allo stesso modo di come aveva fatto il Cavaliere al mercato.
“Dove credi di andare, Peter?” disse una voce.
Un uomo, che dall’aspetto non sembrava una guardia, era comparso dal nulla e non mollava la presa sul ragazzino. “Come ti salta in mente di aggredire una persona che ti si è mostrata così gentile? E poi hai rubato ancora una volta! Cosa dirà tua madre una volta a casa?”
“Niente, perché non lo verrà mai a sapere, vero?” disse Peter con tono eloquente.
“Sa già tutto… Non per opera mia, però!” rispose l’uomo, senza riuscire a trattenere un sorriso davanti alla smorfia spaventata che si era formata sul viso del ragazzino. Si avvicinò poi al Cavaliere, e disse: “Ti ringrazio a nome della sua famiglia per aver dato una mano a questo scellerato.” Gli porse la mano: “Piacere di fare la tua conoscenza. Spero tu possa perdonarmi se non ti dirò adesso il mio nome, ma preferirei non rischiare di farlo sapere a qualcuno d’indesiderato.”
“Se pensi ch’io possa essere una persona indesiderata, perché porgermi la mano?” chiese il Cavaliere.
“Oh, ma non mi riferisco a te. Bensì alle persone alle quali rischieresti di rivelare il mio nome una volta conosciuto!” esclamò l’uomo con spensieratezza.
“E a chi mai dovrei dirlo?” disse il Cavaliere.
“Al Castello, perché no? O a chiunque potrebbe mandare per interrogarti.”
“Ho già attirato tutta questa attenzione? Per così poco?”
“Non ne ho idea” sorrise l’uomo, “Ma se c’è una cosa che ho imparato, è che bisogna sempre usare ogni cautela possibile.”
“D’accordo, allora se preferisci mantenere il tuo nome segreto, farò lo stesso e non ti dirò il mio” disse il Cavaliere.
“Niente da obiettare!” disse l’uomo soddisfatto.
I due si strinsero la mano.
Si separarono subito dopo, andando ognuno per la propria strada. L’uomo se ne andò assieme a Peter, svoltando in un vicolo ancora più buio e stretto, mentre il Cavaliere tornò sui propri passi verso strade più luminose e affollate.
“Sicuro che non sia un rischio tornare tra la folla dopo così poco tempo? Hai sentito le parole di quell’uomo, potremmo essere ricercati adesso!” disse la vocina nella sua tasca.
“Cos’altro vorresti fare? Siamo arrivati in città da nemmeno un’ora e già dobbiamo darci alla macchia?”
“No! Dico solo che potremmo tornare a recuperare la mia pera cercando vie più riservate…”
Il Cavaliere fece finta di non aver sentito, ripercorrendo all’inverso la strada che aveva fatto per arrivare fin là. Di guardie non ve n’era traccia e i passanti parlavano e passeggiavano come se l’inseguimento avvenuto pochi minuti prima non fosse mai accaduto.
Fu allora che, alzando lo sguardo, vide il castello. Era posto così in alto sulla cima della rupe, che in quella città di posti come la piazza, nella quale rimaneva nascosto dietro agli alti tetti, se ne potevano contare sulle dita di una mano.
Privo di mura protettive, poiché la rupe fungeva come difesa più che sufficiente, non aveva nulla di sontuoso: era un enorme, grigio e freddo blocco di granito di forma cubica, incastonato nella rupe in modo innaturale, come se fosse stato appoggiato là sopra e poi dimenticato. Le sue dimensioni sembravano immense, capaci di ospitare probabilmente l’intera città.
Quando l’arcata d’ingresso della piazza fu in vista, il Cavaliere lo scrutò alla ricerca delle guardie che aveva percosso poco prima. Di loro non v’era traccia, la via era libera. Continuò così ad avvicinarsi all’ingresso quando, poco prima di varcarlo, vide due figure appoggiate ad una colonna vicina. Erano proprio loro, le due guardie che aveva cercato. Stavano parlando tra loro quando si accorsero di lui. Smisero di parlare e si voltarono nella sua direzione, con sguardo un po’ teso, ma senza dare segnali di volersi muovere dalla loro postazione per andargli incontro.
Il Cavaliere continuò a camminare ricambiando lo sguardo, sorpreso che non gli stessero saltando addosso. Varcò la soglia, passando loro vicino, e tornò alla bancarella della pera promessa.
La trovò incustodita. Sembrava tutto a posto, le casse erano ben disposte e la frutta al loro interno era ordinata, ma del venditore non v’era traccia. Gli saltò all’occhio un piattino, posto sulla piccola sedia ove il mercante soleva sedersi per riposarsi, con sopra poggiata una pera. Allungò la mano e la prese, doveva essere la sua pera, non poteva essere una coincidenza.
La vocina si levò dalla sua tasca: “Finalmente il mio meritato compenso! Presto! Dammela!”
Il Cavaliere in tutta risposta si sfilò leggermente l’elmo, quanto bastava per scoprirgli la bocca, e le diede un bel morso. Solo dopo averlo fatto, la infilò in tasca, noncurante dei sibilii rabbiosi che vi provenivano.
“Meritavo anch’io un premio.”
La vocina non rispose, troppo impegnata a mangiarsi la tanto attesa pera.
Il Cavaliere guardò ancora una volta il banco di frutta, pensando al venditore. Si voltò poi di nuovo verso le guardie. Quelle, in lontananza, continuavano a guardarlo, senza muoversi. Si allontanò allora dalla bancarella, incamminandosi in direzione opposta alla loro, senza voltarsi indietro. Uscì dalla piazza e proseguì lungo la via.
Si stava probabilmente addentrando sempre più nella città, perché man mano che camminava la pietra si sostituiva al legno, in case sempre più alte e meglio tenute. Il muoversi della folla era più lento, rilassato, forse perché le strade si erano fatte più large e c’era più spazio per tutti, forse perché il sole stava ormai cominciando a calare e si avvertiva già che la giornata stesse giungendo al termine.
Assieme al sole, anche le temperature iniziavano a calare. Il problema di non avere un posto dove passare la notte si stava presentando con urgenza.
Passando davanti a una locanda, dalla quale proveniva un gran rumore di voci, vi si avvicinò, attratto come una falena dalla luce di una candela, e una volta davanti non ci pensò due volte prima di entrarci. Fu subito investito da una folata di calore proveniente da un camino nel quale ardeva un gran focolare, che illuminava bene tutto l’ambiente.
La locanda consisteva di un’ampia stanza in cui una parete era occupata quasi per intero da un lungo bancone di legno, dietro al quale un locandiere era impegnato a servire clienti. Il resto della stanza era delimitato da massicci tavoli rotondi di legno massello, sui quali bevevano e parlavano rumorosamente alcune dozzine di persone. Nel mezzo lo spazio era lasciato libero affinché camerieri o clienti potessero fare liberamente avanti e indietro tra i tavoli e il bancone.
Il Cavaliere prese posto a un angolo di quest’ultimo, quello più lontano dalle altre persone. Dopo non molto, da dietro il bancone, fu raggiunto dal locandiere.
“Buonasera, cosa ti porto?” chiese, con aria stanca.
“Un idromele, grazie” rispose il Cavaliere.
“No! Un sidro di pere!” si intromise di nuovo la vocina, proveniente stavolta non dalla tasca, ma dal piano del bancone in mezzo a loro.
Uno scoiattolo, né più grande né più piccolo di un qualsiasi normale scoiattolo, distinto solo da una coda a strisce di varie sfumature di marrone, stava in piedi sulle sue piccole zampe posteriori guardando con aria di sfida il locandiere. Questi gli restituì lo sguardo senza battere ciglio, forse troppo stanco per stupirsi di uno scoiattolo parlante. “Sidro di pere sia” disse, allontanandosi da loro.
Lo scoiattolo portò in alto le zampe anteriori, stiracchiandosi, e poi si voltò verso il Cavaliere, soddisfatto: “Capo, hai trovato proprio un bel posto al caldo, qui posso uscire senza soffrire il freddo!”
Il Cavaliere lo guardò e chiese: “Endo, sei sicuro di non avere alcuna idea di dove siamo?”
“Non il più stralcio d’idea.”
“Lo sai che anche una tua minima idea potrebbe aiutarci a capire dove trovarlo?”
“Lo so, capo, ma davvero sono per ora spaesato almeno quanto te.”
“Va bene.”
Il Cavaliere rimase seduto in silenzio a guardare il vuoto, a differenza dello scoiattolo, che si guardava intorno incuriosito e desideroso di farsi notare dagli altri, per osservare la loro espressione nel vedere uno scoiattolo intelligente.
Il locandiere tornò presto da loro col sidro e lo appoggiò davanti al Cavaliere, stavolta senza neanche degnare l’animaletto d’uno sguardo. Quest’ultimo, indispettito, si tuffò nel bicchiere prosciugandolo in poche sorsate. Dopo esserne uscito, tutto sporco, fece un piccolo ruttino. Poi si voltò verso il Cavaliere e gli fece un pollice in su: “Adesso siamo pari col morso che hai dato prima alla mia pera, Capo. Sono felice di poter tornare a guardarti con affetto!”
Ma il Cavaliere non lo ascoltava più, attirato dall’ingresso della locanda.
Un uomo alto e corpulento, con capelli e folti baffi rossi, vestito con gli abiti di una guardia, era entrato nel locale e si era poi poggiato al bancone, non lontano da loro. Ordinò una birra e rimase a guardare il muro davanti a sé con lo sguardo assonnato. La punta del suo naso e le sue guance erano arrossate, era visibilmente ubriaco. Il locandiere gli servì una birra e tornò poi dal Cavaliere: “Per il sidro fanno 5 monete.”
Il Cavaliere lo guardò e gli disse: “Non ho monete con me, ma confido nel trovare un accordo per ripagarla!”
Il locandiere, impassibile, fece un leggero sbuffo e fece un passo verso la guardia, che era impegnata a bere la birra tutta d’un sorso: “Rob, il signore qui non ha soldi per pagare.”
La guardia finì il boccale e si voltò prima verso il locandiere, poi verso il Cavaliere. Il suo sguardo era infastidito, ma dopo averlo guardato per un lungo secondo si distese, tirò fuori di tasca cinque monete d’argento e le poggiò sul bancone: “Pago io per il lui! Chi sono io per privare un uomo di quella che sarà probabilmente la sua ultima bevuta!”
Il locandiere prese le monete senza dir niente e tornò a servire altri clienti.
“È una minaccia?” chiese il Cavaliere.
“No, non è una minaccia, ho solo capito chi è lei! Ci è giunta poche ore fa, subito dopo essersi divertito al mercato, una missiva dal Castello che ci informava che lei è sotto osservazione.”
“Che significa?”
“Significa che, alla sua prossima infrazione, verrà arrestata” disse la guardia con semplicità, e dopo una breve pausa aggiunse: “…per mano della Guardia del Castello.”
A quelle parole il locandiere, poco distante, sentendo ciò nonostante il grande chiasso, si voltò verso il Cavaliere.
Rob continuò: “Non so perché intervenga la Grande Guardia per un lavoro che potremmo tranquillamente fare noi, ma ad essere sincero non m’interessa… Le lascerò farsi un’ultima bevuta qui, stasera, e magari anche qualche altra passeggiata per la città, a patto che si comporti bene. Se non me lo garantisce potrei arrestarla io, adesso, e fare tutti felici evitando di scomodare il Castello. Che ne dice?”
“L’idea di passare una serata tranquilla mi convince, quindi ti ringrazio per avermi pagato da bere e ti prometto che me ne resterò qui, da bravo.”
“Ben detto!” Disse Rob battendo il pugno sul bancone, “Si vede che lei è un bravo ragazzo!”
Detto ciò si alzò e se ne andò, barcollando un po’.
“Te lo dicevo, Capo, l’abbiamo fatta grossa!” disse Endo.
“Tutte queste attenzioni del castello mi fanno pensare che potremmo cominciare proprio lì la nostra ricerca” disse il Cavaliere, rivolto più a se stesso che al suo piccolo compagno. Con uno schiocco il bancone tremò, e accanto a lui comparve un nuovo boccale di sidro di pere.
“Ti sei già dimenticato che non ho monete per pagare?” chiese al locandiere, che era tornato da lui.
“Questo l’offro io” gli rispose, “Vorrei però che rispondessi alla mia domanda: conosci Marge Bridges?”
“Mai sentita nominare. Chi è?”
“Mia figlia.”
“Perché mi chiedi se la conosco?”
“Perché è scomparsa.”
“E cosa c’entra con me? Rischio di scomparire anch’io?”
“Così pare, stando a quello che ha detto Robert. E fossi in te non prenderei questa cosa alla leggera, delle persone portate al Castello…”
“Si perde ogni notizia, sì, lo so.” lo incalzò il Cavaliere.
Il locandiere lo guardò in silenzio per un secondo prima di dire: “Quando ti tornerà la voglia di fare qualche sciocchezza, cerca per favore di non farti trovare vicino a questa locanda.”
“La guardia del castello incute a tutti molto timore… Ma da come vi rivolgevate prima a quell’uomo, Robert, immagino che non sia una di loro.”
“Lui è una guardia cittadina, il suo compito è mantenere l’ordine spedendo in prigione chi crea disordine. Le guardie cittadine sono persone comuni, che vivono con noi qui in città”
“Ubriacarsi durante il lavoro rientra tra i loro compiti?” lo interruppe il Cavaliere.
Il locandiere lo ignorò e proseguì: “Della Grande Guardia invece si sa che interviene quando ci sono problemi che il Castello reputa più importanti del solito… È capitato che intere bande di delinquenti pericolosi siano scomparse nella durata di una notte, senza lasciarsi alle spalle nemmeno una macchia di sangue.”
“Impressionante. Chi vi fa parte?”
“Non si sa, non si hanno testimonianze dirette del suo agire. È molto discreta, nessuno l’ha mai vista.”
“Quindi al mio prossimo misfatto potrò vederla coi miei occhi?”
“Sì, ma non ti gioverà molto, perché scomparirai subito dopo.”
“Non temete! Quando ciò succederà mi nasconderò in un angolo, così da poter raccontare al mondo intero quanto grandi e brutte sono le facce delle guardie del castello!” s’intromise Endo con entusiasmo.
“Endo, prima che la guardia arrivi ti legherò e ti metterò in fondo alla mia tasca, affinché il mio destino sia identico al tuo.”
Sovrastando le acute risposte dello scoiattolo, il locandiere disse al Cavaliere: “Se finissi al Castello e dovessi incontrare Marge, dille che i suoi genitori sognano ogni giorno di poterla riavere con loro… a casa.”
“Stai dando molto per scontato la mia cattura! Comunque va bene, se dovessi mai incontrarla, glielo dirò.”
Il locandiere gli fece un cenno con la testa, e tornò al lavoro.
Il Cavaliere abbassò lo sguardo sul nuovo boccale di sidro, ma era vuoto. Endo aveva ripulito anche quello per rappresaglia. Non fece in tempo a dirgli qualcosa che, improvvisamente, a una manciata di centimetri dalla sua testa, volò un boccale di vetro che andò a schiantarsi in mille pezzi sul muro davanti a lui.
Voltandosi, vide un bestione massiccio, alto due metri, con braccia sproporzionatamente lunghe e un volto incavato, con la mascella pronunciata e due occhietti appena visibili. Si stava avvicinando a lui con aria minacciosa.
Il Cavaliere, indicandosi la testa con un dito, gli disse con fare pratico: “Sai, ho l’elmo… Non mi avresti fatto un gran male se mi avessi colpito.”
“Ho sentito che la Grande Guardia verrà a prenderti non appena creerai scompiglio…” gli disse la montagna, scrocchiandosi le mani, “Vieni, su… Dalle una scusa per venire a mostrarsi qui, adesso!”
“Ma sei impazzito? Fermati! Grog!” impazzirono alle sue spalle le voci delle altre persone, ma l’omone non le ascoltava, era troppo ubriaco per ascoltarle, o forse semplicemente non gl’importava. Giunse davanti al Cavaliere, limitandosi a guardarlo sorridente.
Il Cavaliere rimase al proprio posto e, alzando lo sguardo su di lui, sospirò: “Accidenti.”
Il sorriso di Grog divenne un ghigno: “Se non vuoi iniziare tu, inizio io!” e detto ciò poggiò sulla testa del Cavaliere la propria mano, così grande da contenerne nel palmo tutto l’elmo, e la spinse violentemente a terra assieme a tutto il corpo alla quale era attaccata.
Nel locale si creò il gelo e tutti i presenti trattennero il respiro. Il Cavaliere si rialzò subito, ma senza fretta. Volse poi lo sguardo prima su Grog e poi verso il locandiere, che osservava l’accaduto da dietro il bancone con aria arrabbiata.
“Cosa vuoi che faccia?” gli chiese.
“Preferirei che tenessi lontano dalla mia locanda qualsiasi intervento della Grande Guardia, te l’ho già detto” rispose il locandiere, senza distogliere lo sguardo da Grog.
Grog nel frattempo si era di nuovo avvicinato al Cavaliere e aveva iniziato a fendere l’aria nella sua direzione coi suoi enormi pugni chiusi. Quest’ultimo li schivò senza dir niente, indeciso sul da farsi.
Vedendo che i suoi pugni non sortivano alcun risultato, Grog perse la pazienza, prese a due mani un tavolo vicino e lo scagliò con forza contro il Cavaliere. Questi lo schivò con un balzo, e il tavolo finì in frantumi un angolo della stanza, con un boato fragoroso. Tutti i vicini al luogo d’impatto corsero fuori dal locale, chiedendo aiuto a gran voce. Tutti eccetto uno: uno smilzo signore anziano era rimasto fermo al proprio posto, impassibile. Vestito di un’elegante giubba grigia ben tagliata, si riaggiustò sul naso i suoi occhialini alla John Lennon, sorrise e disse, scandendo bene la voce: “Riporta l’articolo 52 del Codex Castelli: Non è punibile chi ha commesso atti violenti per esservi stato costretto dalla necessità di proteggere un bene della comunità, contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.”
Il Cavaliere rimase fermo un attimo, confuso. Quando capì il significato di quelle parole, guardò velocemente i frammenti di legno a terra e poi il locandiere, il quale, come a dare voce ai suoi pensieri, gli disse: “Spaccagli le gambe.”
Grog si avventò di nuovo sul Cavaliere, il quale stavolta non si limitò più a schivare i suoi colpi, ma cominciò ad assestargli una serie di pugni sull’addome. Questi non sembravano sortire un grande effetto, ma egli continuò composto la sua serie, dando mostra di una tecnica raffinata.
Non passò molto prima che Grog iniziasse a mostrare segni di stanchezza, e fu solo allora che il Cavaliere iniziò a concentrarsi anche sulle sue gambe, asserragliandole con numerosi calci.
L’effetto di questi fu visibile fin da subito, infatti Grog iniziò presto a gemere ed ansimare, fino a quando il Cavaliere non gli assestò un calcio particolarmente forte sul ginocchio, mandandolo a terra e senza le forze per rialzarsi.
In quel momento accorsero una decina di guardie cittadine, forse rimaste in disparte fino ad allora, e li accerchiarono a spade sfoderate. Il Cavaliere alzò le mani, e stava per spiegare loro l’accaduto quando alle sue spalle una voce esclamò: “Se avessi saputo che entro 5 minuti dalla mia uscita avresti fatto tutto questo casino, ragazzo, avrei fatto a meno di andarmene!”.
Era Robert, che con aria assonnata fece due volte il giro del locale, quantificando la gravità dei danni. Dopodiché si fermò accanto a Grog, ancora a terra, e dandogli un leggero colpetto col piede disse alle guardie: “Portatelo via, domattina faremo due chiacchiere col giudice per capire come fargli ripagare i danni che ha fatto.” Le guardie abbassarono le lame e con fatica tirarono su Grog, trascinandolo fuori dal locale. Si avvicinò poi al Cavaliere e gli disse: “Quanto a lei… È libero di andare”, guardando prima lui e poi il locandiere, il quale stava spazzando in silenzio i frammenti di legno sparsi a terra per tutto il locale.
“Mi lasci andare così? Senza neanche chiedermi cos’è successo?” chiese il Cavaliere.
“Non ce n’è bisogno, della sua innocenza ho una garanzia migliore di qualsiasi testimonianza.”
“Ovvero?” chiese il Cavaliere.
“Il fatto che lei sia ancora qui, e che possa ancora vederla coi miei occhi” disse Robert, mostrandogli con un sorriso i suo denti gialli. Detto ciò raggiunse i suoi colleghi, per strada.
Il Cavaliere rimase fermo al suo posto per qualche altro secondo, come se non fosse stato ancora congedato, tornò poi al suo posto e allungò in avanti una mano per permettere a un divertito Endo, che era rimasto fino ad allora sdraiato a pancia in giù sul bancone e con la testa tra le zampe a godersi lo spettacolo, di rientrargli in tasca.
Uscì poi fuori, ma prima di varcare la porta si fermò e disse: “Mi dispiace per l’accaduto.”
Il locandiere non gli rispose.